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Paolo Cucchiarelli: «Il Secret team influì sulla fine di Moro»

di Pietro Andrea Annicelli

16/03/2018 Attualità

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Paolo Cucchiarelli: «Il Secret team influì sulla fine di Moro»

 

Paolo Cucchiarelli, giornalista romano dell’Ansa, considerato un caposcuola del giornalismo investigativo italiano, è in Puglia per alcune presentazioni di Morte di un Presidente, il suo libro sul caso Moro pubblicato due anni fa da Ponte alle Grazie. La stessa casa editrice pubblicherà il 12 aprile un nuovo libro di Cucchiarelli sullo stesso argomento: L’ultima notte di Aldo Moro.

Sulla foto di copertina c’è scritto: dove, come, quando, da chi e perché fu ucciso il presidente Dc. Non intendo rovinare la sorpresa con troppi dettagli, però immagino che sia confermata l’ipotesi del precedente lavoro dove indicavi in Giustino De Vuono, brigatista rosso in connessione con la n’drangheta, il killer di Aldo Moro.  

«Quella ipotesi la dimostro tecnicamente. Il nuovo libro non è l’approfondimento o lo sviluppo del precedente. Si tratta d’una indagine completamente nuova che risponde alle critiche fortissime venute al precedente lavoro dalla Commissione Moro e dal Reparto investigazioni scientifiche dei Carabinieri. Rispondo, spiego e dimostro che le tesi avanzate in Morte di un Presidente erano sostanzialmente corrette. Fornisco inoltre degli elementi nuovi sulle modalità della morte. Ad esempio, dico dov’era la prigione di stazionamento, in pieno centro a Roma, da cui parte Moro per essere liberato. Dico dove Moro viene portato per essere liberato e dove accadono delle cose che determinano, nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978, la sua uccisione. Fu una morte non voluta direttamente dalle Brigate Rosse, ma imposta dalle circostanze che vennero puntellate da tutti coloro che volevano che Moro morisse invece che tornare libero».

Detta così sembra quasi una conferma del teorema di Steve Pieczenik, lo psichiatra del Dipartimento di Stato americano che, da consulente del comitato di crisi istituito dal ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, per gestire il sequestro Moro, sostenne di aver manipolato le Br inducendole a uccidere l’ostaggio. O è una forzatura? 

«No, non è una forzatura. Pieczenik dice politicamente che cosa accadde. Io spiego come e perché è accaduto. Pieczenik racconta una storia in chiave politica. Io, attraverso una ricostruzione giornalistica, fornisco la chiave documentale dell’accaduto. Moro doveva morire perché aveva perfettamente capito, al pari di altri politici, che dietro al suo rapimento si stagliava una realtà ben più alta e complessa delle Br. Un’analisi del tutto nuova delle sue lettere dimostra che le Br si stavano muovendo con coperture e aiuti inimmaginabili, riconducibili a una struttura d’intelligence americana non ufficiale e parallela alla Cia: il Secret team».

Secret team è il titolo d’un libro del colonnello dell’Aviazione americana Fletcher Prouty, il famoso Mr. X del film di Oliver Stone JFK sulle indagini inerenti l’assassinio di John Kennedy, in cui accusa una struttura della Cia di condurre operazioni di sovversione anche interne agli Stati Uniti tra cui appunto l’uccisione di Kennedy.  

«Il Secret team è esistito: vi sono sentenze e documenti del Congresso americano che ne parlano, oltre a saggi internazionali. Ebbe come riferimento Theodore Shackley e intervenne in tutte quelle questioni nevralgiche per la politica internazionale americana in cui gli Stati Uniti non potevano apparire ufficialmente: Vietnam, Iran, Libia, Nicaragua. In precedenza era stato coinvolto nella cosiddetta Operazione Mangusta, cioè l’ideazione e l’organizzazione di attentati per assassinare Fidel Castro, e nei tentativi di assassinare Kennedy prima che avvenisse a Dallas. La storia parte dal Laos, dove il Secret Team utilizza l’eroina che veniva dalle coltivazioni in quell’area di papavero da oppio per finanziare operazioni politiche e di sovversione. Attraverso quei traffici guadagna moltissimi soldi che servono per finanziare operazioni segrete in tutto il mondo. Il Secret team entra in Libia nel 1974 e nel ’76. Due agenti che facevano capo a Shackley, Edwin Wilson e Frank Terpil, facendosi passare per soldati di ventura al soldo di Gheddafi, organizzano dei campi di addestramento da cui transitano i terroristi di tutte le più importanti organizzazioni europee: l’Ira, la Raf, le Br. Io formulo l’ipotesi, sulla base di alcuni elementi, che il famoso sparatore di via Fani, l’uomo che da solo avrebbe esploso circa metà dei colpi rinvenuti e sterminato la scorta di Moro, sia stato un terrorista addestrato in una di quelle basi. Una tattica del Secret team era infiltrare i gruppi terroristici facendo accadere gli attentati che voleva che accadessero e bloccando gli altri. L’agguato di via Fani avevano l’interesse che avvenisse. Ho anche trovato traccia della presenza fisica di questa persona nello stabile a Roma in via Massimi 91 di proprietà dello Ior, la banca del Vaticano gestita dall’arcivescovo Paul Marcinkus. All’ultimo piano si trovava, ed è tuttora lì, la prima prigione di Moro. È un immobile piccolo con un bagno ricavato dividendo quello che era l’appartamento sul terrazzo in uso alla servitù. Nello stesso edificio e in quelli accanto si muovevano arabi, libici legati al Secret team e un’ala dei servizi segreti italiani referente dell’oltranzismo anticomunista e filoamericano di Licio Gelli. Questa è una delle grandi novità del nuovo libro». 

 

   

 

È possibile qualche altra anticipazione?

«Una parte del lavoro è dedicata alla ricostruzione, che finora non era mai stata fatta con chiarezza e incisività, della trattativa per la liberazione di Moro con gli accordi politici tra il 5 e l’8 maggio 1978. L’inchiesta dimostra che la trattativa ci fu perché Moro aveva capito con chi aveva a che fare. Lui decise di scambiare la sua libertà con l’abbandono dell’intesa tra democristiani e comunisti e l’impegno a non rivelare nulla. Ma non accettarono che un giorno potesse cambiare idea. Perciò si dettero un gran da fare affinché fosse ucciso. Questo è un altro passaggio di grande importanza perché vi si racconta dove e come sia stato ucciso Aldo Moro». 

Qual è il valore del libro rispetto all’ampia bibliografia sul caso Moro?

«Esso offre una lettura unitaria di ciò che è avvenuto politicamente in Italia in quel periodo. E di come, nel settembre ’78, l’intesa tra le forze politiche che avrebbero in seguito governato il Paese con l’accordo tra Bettino Craxi, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani, il cosiddetto Caf dalle iniziali dei loro cognomi, si stringa intorno al silenzio sulla morte di Moro. Il libro dimostra anche che aveva ragione Leonardo Sciascia a parlare di bottega oscura e di garage dove Moro era stato assassinato. Infatti dico quali erano la bottega oscura e il garage. È una pubblicazione strapiena di novità, analisi nuove e punti di vista che fanno combaciare con naturalezza quello che finora era scomposto, illogico, contrapposto, illeggibile». 

Non ti hanno soddisfatto le conclusioni della seconda Commissione parlamentare sul caso Moro.

«La Commissione ha raccolto prove fortissime sulla presenza del Secret team. Quanto ha poi riportato nella relazione finale, così come è stato esposto, risulta fuorviante, monco e troppo timido rispetto al compito che il Parlamento le aveva affidato, cioè raccogliere elementi di novità e di verità. Quella verità che c’era nelle carte e che la Commissione ha deciso di seppellire apponendo un segreto la cui durata può variare, per legge, dai trenta ai cinquant’anni a partire dal 2017. Tutto questo è semplicemente inaccettabile. Non si può scambiare il silenzio sul più importante omicidio politico che ha colpito l’Italia con qualche piccolo tornaconto».

Nella foto di copertina, Paolo Cucchiarelli con la Renault 4 rossa in cui fu rinvenuto il corpo di Aldo Moro.

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