cronache martinesi

Direttore Pietro Andrea Annicelli

Ancora sulla Martina storica, o la città ripudiata

di Leonardo Angelini*

09/04/2018 Cultura

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Ancora sulla Martina storica, o la città ripudiata

 

Ricordo che la mattina in cui ebbe inizio la grande nevicata del ‘56 partii per ingiunzione di mio padre da Locorotondo, dove abitavo, per raggiungere la scuola media di Martina: avevo dodici anni e a quel tempo a Locorotondo ancora non c’era la scuola media. Fu così che mi trovai incastrato a Martina presso la mia nonna materna, Pasqua Rosa Lupoli, che abitava in una strada che scorreva a fianco del Convento delle Agostiniane, non lontano dalla bella chiesetta di San Giovannino.

Rimasi lì per quasi un mese: eravamo isolati da Locorotondo, anche se uno dei miei zii, anche lui migrato a Locorotondo, veniva a piedi fino a Martina per dare da mangiare ai conigli e per passare a trovare la propria madre: e cioè Nonna Rosa.

Ho ricordato questo episodio della mia preadolescenza perché per tutto quel periodo, grazie alla disseminazione per tutto il centro storico di quei negozietti forniti di tutto, e che ora non ci sono più, a me e a Nonna Rosa non mancarono mai cibo, latte, carbone per il braciere, e tutto l’occorrente per continuare a vivere decentemente. Ricordo addirittura che verso la fine dell’emergenza passò nu pésciajùle con la sua stadera, proveniente chissà da dove, che vendeva sgombri in giro per le stradelle ancora innevate!

Voglio dire che allora il centro storico di Martina, così come quello di Locorotondo, era abitato e pulsante di vita perché tutto l’ambiente si era andato stratificando nel lento trascorrere dei secoli in modo che ogni elemento risultasse funzionale al mantenimento nel tempo di un proprio equilibrio omeostatico. Un equilibrio, certo, che era patentemente classista: basti pensare alla forma finale assunta da ogni edificio che vedeva nei piani alti i palazzi dei proprietari terrieri e degli altri ricchi o benestanti, e al piano terra gli jusi, i sottani1, abitati dalla povera gente (ciabattini, sarti, fabbri) e sede di quei mini-bazar, a cui lì per lì non si faceva caso, ma che a vederli oggi  rappresentavano un vero e proprio collante che teneva insieme il tutto. Basti pensare alla disposizione di quei negozianti a fornire i più vari prodotti anche in porzioni lillipuziane, e a credito (damme nu quinte d’ugghie, i signe!) per comprendere l’importanza che essi assumevano per la povera gente. Un equilibrio che fino agli inizi degli anni Sessanta era rimasto pressoché invariato, creando oltretutto legami di vicinato che spesso andavano a scalfire quel muro di classe che pure divideva gli abitanti del borgo.

Come diceva l’antropologo americano Anthony Galt parlando di Locorotondo2, ma con  poche modifiche la stessa cosa si può dire di Martina, questo mondo comincia a diventare obsoleto quando «la penetrazione dei prodotti industriali a basso costo in Italia meridionale ha dato un colpo di grazia all’economia artigiana». Ciò, continua Galt, «ha causato un boom della distribuzione al dettaglio» e l’emergere di tutta una serie di opportunità che sconvolgono le vecchie abitudini: «L’arrivo di grandi negozi di elettricità e di elettrodomestici, di negozi di abbigliamento alla moda, perfino di piccoli supermercati, l’aumento delle automobili, delle macellerie, di ortofrutta, ristoranti, bar e rosticcerie per la soddisfazione di una crescente domanda di ristorazione veloce». A ciò corrisponde, continua ancora Galt, «un sostanzioso aumento di posti nel settore pubblico che ha permesso l’aumento del lavoro femminile extradomestico, un aumento di domande di alloggi di tipo condominiale fuori dalla cerchia delle vecchie mura, nella paese nuovo che in quegli anni comincia ad espandersi ai piedi del vecchio borgo». E infine l’emergere, sempre negli anni Sessanta, di nuove opportunità formative e occupazionali, di nuove attività imprenditoriali che «hanno sgretolato l’egemonia delle vecchie classi della borghesia rurale e delle professioni». E che, potremmo aggiungere noi, hanno spinto all’inurbamento gli ex contadini. I quali, grazie all’industrializzazione del lavoro agricolo, non hanno più ragione di vivere, come avevano fatto fino ad allora, sulla propria terra.

È in quegli anni che dappertutto in Puglia nascono intorno ai vecchi borghi storici dapprima quelle cinture di cemento in cui prima o poi si spostano un po’ tutti, e da ultimo le villette e i vecchi trulli ristrutturati ed ampliati, che non rispondono più alle esigenze di autoconsumo tipiche di quella economia familiare che aveva permesso ai contadini della Valle d’Itria di star meglio degli artigiani e della maggior parte dei paesani, ma a nuove necessità di vita, a nuove soluzioni in grado di fornire una risposta adeguata alla nuove esigenze di benessere.

Si va così componendo un nuovo equilibrio omeostatico, funzionale agli stili di vita delle nuove classi sociali. E, così come ognuno vive sulla propria pelle la pesantezza asfissiante delle nuove periferie, allo stesso modo spero che ognuno possa sentire quanto indegne della bellezza e dell’eleganza dei vecchi palazzi intramoenia siano le brutture di ogni tipo che la mancanza di gusto dei nuovi ricchi va seminando nelle nostre campagne.

 

1 Come li chiamava Giuseppe Grassi nel suo Dizionario martinese-italiano, a cura di Pasquale Minervini, Schena Editore, 1984.

2 Galt A. H. 1992. Town and Country in Locorotondo. Holt, Rinehart and Winston, Green Bay, USA.

 

*Psicologo, psicoterapeuta

Nella foto, la sommità dell'arco di Santo Stefano, la principale porta d'ingresso al centro storico di Martina. L'immagine precede i recenti interventi di ripulitura e di restauro.

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