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Giovanni Fasanella: «Moro muore, l’Italia č subalterna»

di Redazione

28/05/2018 I libri

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Giovanni Fasanella: «Moro muore, l’Italia č subalterna»

 

La ricerca storica di Giovanni Fasanella, un passato significativo come giornalista parlamentare, oggi apprezzato saggista, incrocia la vicenda di Aldo Moro, di cui ricorre il quarantennale, con Il puzzle Moro, Chiarelettere. È ultimo di tre lavori di ricerca, gli altri due sono Il golpe inglese e Colonia Italia, sempre per Chiarelettere, che scaturiscono dall’analisi, insieme a Mario José Cereghino, di documenti desecretati provenienti dagli archivi dei servizi segreti britannici e comunque da fonti ufficiali e governative della Gran Bretagna. Questa sera Fasanella lo presenta a Martina Franca alle 18.30 nel Palazzo Ducale, nella Sala degli Uccelli, dialogando con l’assessore alla Cultura, Antonio Scialpi, la giornalista Annalisa Latartara e il direttore di Cronache Martinesi Pietro Andrea Annicelli. La presentazione è stata organizzata dalla libreria Storie in corso di Antonella Colucci.

Fasanella, c’è un’Italia prima e un’altra Italia dopo il caso Moro. Perché?

«La morte di Aldo Moro rappresenta indubbiamente uno spartiacque tra due storie: quella del quattordicennio moroteo, che affonda le radici nel dopoguerra, e quella successiva. Moro è stato un protagonista della vita politica italiana dal 1963 al 1978. È stata un’epoca in cui l’Italia è andata alla ricerca della sua emancipazione dai vincoli imposti dalla condizione di nazione sconfitta nella seconda guerra mondiale e soggetta alle condizioni del trattato di pace sottoscritto con le potenze vincitrici. I vincoli erano soprattutto tre. Il primo: l’Italia non avrebbe potuto avere un regime pienamente democratico. Il secondo: l’Italia non avrebbe potuto avere una politica autonoma della sicurezza, ma avrebbe dovuto soggiacere alla catena di comando britannica. Il terzo: l’Italia non avrebbe potuto avere una politica estera autonoma, soprattutto energetica e quindi per quanto riguardava il Mediterraneo, cioè l’area di nostro immediato interesse geopolitico. In quegli anni l’Italia supera tutti e tre i vincoli e quindi la Gran Bretagna predispone dei piani clandestini per contrastare la politica di Moro». 

La politica mediterranea dell’Italia è oggi una chiave di lettura finalmente chiara, dopo essere stata a lungo offuscata dalla guerra fredda che portava considerare tutti gli avvenimenti nel contesto dello scontro tra i blocchi occidentale e sovietico.

«In tutte le ricostruzioni della vicenda Moro, tra i tanti vizi che hanno contribuito a sollevare una cortina fumogena che ha reso difficile se non talvolta quasi impossibile comprendere l’esatta dinamica della vicenda, due sono stati particolarmente significativi: ritenere che il caso Moro fosse una vicenda interamente ed esclusivamente italiana, come a lungo ha voluto farci credere la storiografia ufficiale, e considerarla una vicenda tutta americana da valutare nel contesto della guerra fredda. La guerra mediterranea per il controllo degli approvvigionamenti energetici, che aveva in Moro il punto di riferimento dell’interesse nazionale come lo era stato prima di lui Enrico Mattei, ha avuto un peso assai più rilevante. Ce lo dicono i documenti britannici. Essi spiegano quanto duro sia stato il contrasto alla politica mediterranea e terzomondista del nostro Paese. La Gran Bretagna, prima e dopo la seconda guerra mondiale, aveva bisogno del petrolio per mantenere il suo impero coloniale: l’Italia, per sviluppare la sua industria. La penetrazione italiana nei territori controllati dagli inglesi in cui c’era il petrolio è stata lenta, continua ed efficace, con risultati che hanno progressivamente ridotto l’influenza britannica, duramente contrastata dai movimenti di liberazione dal colonialismo che guardavano con simpatia agli italiani. In questa fase, l’Italia è stata all’apice come potenza mediterranea. La Gran Bretagna era ridotta a essere una semplice grande isola del nord Europa mentre gran parte dei suoi possedimenti mediterranei d’un tempo avevano un rapporto con l’Italia molto diverso rispetto all’epoca in cui cercava un posto al sole attraverso il colonialismo e le conquiste imperiali del Fascismo. L’Italia esercitava una politica di amicizia, collaborazione, che le garantiva una notevole influenza. E questo non andava giù agli inglesi, che ci consideravano, si legge nei loro documenti, una potenza di terza classe. Allora cercano di bloccare Moro per interrompere la sua politica. Ed è un fatto fondamentale, sottovalutato e quasi mai citato come movente del decennio orribile che si apre il 2 dicembre 1969 con la strage di piazza Fontana e si chiude il 9 maggio con il ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani a Roma». 

Oggi, anche alla luce delle risultanze dell’ultima Commissione parlamentare sul caso Moro, nessuno può credere più che le Brigate Rosse abbiano fatto tutto da sole.  

«La Commissione Moro, che pure ho criticato per certi aspetti all’inizio della sua attività, mantenendo alcune riserve dopo la sua relazione, ha fatto alcune scoperte interessanti. In particolare, dei documenti che sono importanti se si collegano a un contesto internazionale e a operazioni coperte che il governo britannico dell’epoca andava conducendo in appoggio, si legge nel giugno 1976, a “una diversa azione sovversiva” per eliminare Moro dalla scena politica. Le evidenze documentali trovate in archivi autorevolissimi smentiscono definitivamente la tesi del partito negazionista formato da intellettuali, giornalisti, politici, secondo cui nulla ci sarebbe più da sapere della vicenda Moro e le inchieste per i cinque processi avrebbero chiarito tutte le parti oscure. Viceversa questa vicenda va collegata alla guerra politica internazionale contro l’Italia in particolare dei nostri avversari storici nel Mediterraneo, la Gran Bretagna e la Francia, con l’appoggio interno di forze di estrema destra e la partecipazione più o meno consapevole degli utili idioti delle Brigate rosse. Ed è ovvio che fossero rosse» 

Tu hai militato un anno a Torino in Lotta Continua, seguendo poi un percorso lineare nella tua attività professionale di opposizione al terrorismo e quindi alla logica della violenza politica. Altri con un passato ben più lungo e significativo nei movimenti della sinistra extraparlamentare sono poi passati su posizioni diametralmente opposte sostenendo con apparente convinzione, in alcuni casi, la tesi del caso Moro come vicenda italiana esclusivamente ascrivibile alle Brigate Rosse.

«Tuttora, se non si vuole essere ciechi o in malafede, non si può far finta di non vedere che la storia ideologicamente genuina delle Brigate Rosse s’intreccia a realtà estere molto diverse dagli stessi brigatisti.   

Nel triennio tra il 1976 e il ’78 era sufficiente lasciar fare il partito armato: una categoria che comprende le formazioni armate e quella cosiddetta area della contiguità che hanno fatto da cornice alla violenza delle Brigate Rosse, con la conseguenza di un’Italia messa a ferro e a fuoco senza che nessuno le fermasse. Posso capire che lo Stato, il Governo, i vertici della Repubblica, abbiano voluto diffondere una verità parziale che ridimensiona la reale portata degli accadimenti in funzione della ragion di stato. Se invece l’hanno fatto e lo fanno i giornalisti, gli intellettuali, vuol dire che per la verità su quegli anni c’è ancora un condizionamento politico e ideologico molto rilevante».                 

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