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Direttore Pietro Andrea Annicelli

Quel socialista che le cantò all’Europa

di Pietro Andrea Annicelli

19/09/2018 Editoriale

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 Quel socialista che le cantò all’Europa

 

La grande fabbrica di Taranto è al suo terzo tempo. Nel 1960 iniziarono il IV centro siderurgico Italsider: il più grande d’Europa. Era un'Italia che voleva essere un Paese industriale avanzato e ridurre il divario nel Mezzogiorno. Il Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, lo inaugurò il 10 aprile 1965. Il primo e il secondo altoforno erano accesi da sei e tre mesi.

Nel 1995 l’azienda fu privatizzata e ceduta al gruppo Riva che ripristinò il nome di novant’anni prima: Ilva, come i romani chiamavano l’Isola d’Elba. La cessione ad Arcelor Mittal, il primo produttore mondiale dell’acciaio, è avvenuta dopo che, tardi e dolorosamente, tutti hanno preso coscienza del disastro sanitario e ambientale.

Luigi Di Maio è il capo d’un movimento plebiscitato il 4 marzo grazie all’equivoco che, una volta al governo, avrebbe chiuso il siderurgico. Nessuna persona di buon senso poteva realmente pensare a una dismissione come a Bagnoli: sarebbe stata un ulteriore danno all'ambiente. Però a Taranto la mancanza di riferimenti è tale che i cuori e le menti si sono consegnati pure a un trentaduenne di Pomigliano d'Arco che non pare un'aquila della politica.

L'ultimo annuncio di Di Maio è: porteremo le carte in tribunale per verificare se la gara di cessione dell’Ilva è stata legittima. Lascia il tempo che trova come tutta la sua (non) politica sull’Ilva. Lo ha spiegato bene il consigliere regionale Renato Perrini, uno che la grande fabbrica l’ha praticata da operaio e da imprenditore: «Di Maio ha fatto spendere altro denaro e trascorrere altri sei mesi perché doveva studiare il dossier Ilva e approfondire la vicenda: mi chiedo che cosa abbia fatto alla Camera dal 2013 a oggi».

Effettivamente, avendo studiato da premier ed essendo stata la cessione dell’Ilva forse la patata più bollente lasciata dal precedente governo, il leader pentastellato è risultato ondivago nei tre mesi e mezzo (non sei) in cui l'ha gestita. Dalla chiusura fatta balenare durante e dopo la campagna elettorale si è passati all'ipotesi di riconversione dello stabilimento che sarebbe costata tanto denaro pubblico in cassa integrazione straordinaria per i lavoratori. I più sprovveduti hanno poi sperato che la gara potesse saltare o che Arcelor Mittal mollasse. Infine è stato raggiunto un accordo migliore di quello ottenuto da Carlo Calenda: ma quattrocento posti di lavoro in più per 10.700 complessivi, centomila euro lordi per chi lascia l'azienza, il ripristino dell'articolo 18, non valevano l'ammuina e gli ottanta milioni spesi per prorogare il commissariamento. Il buon senso ci fa pensare che Lakshmi Mittal, se il Governo gli avesse chiesto a giugno quello che i sindacati hanno ottenuto da lui a settembre, avrebbe accettato di corsa. I multimiliardari internazionali hanno comprensione delle esigenze propagandistiche della politica politicante.

Di Maio, vero destinatario della contestazione, emblematica anche se pretestuosa, alla deputata Rosalba De Giorgi, una che in Taranto ci crede veramente, ha comunque offerto ai tarantini un premio di consolazione. Il ritiro alla nuova proprietà di quella sorta di licenza d'inquinare che è l'immunità penale se lo stabilimento viola le norme ambientali? No: la promessa d'una sua visita. E Perrini ha detto un'altra cosa importante: se ti prepari a una passerella mediatica, stattene pure a Roma o a Pomigliano d'Arco. Se vuoi invece fare sul serio, mandaci il ministro della Salute e stanzia dei fondi straordinari per l'emergenza sanitaria. Solo così (Perrini non l'ha esplicitato, ma è sottinteso) ti dimostrerai migliore di Matteo Renzi, che il M5s criticò aspramente quando, due anni fa, furono espunti dalla legge di bilancio cinquanta milioni previsti per la sanità tarantina. Hic Tarentum, hic saltus.

Il terzo tempo del siderurgico coincide, si spera, con il secondo tempo, che ci auguriamo migliore del primo, del rapporto tra la città e la grande fabbrica. Nel contratto tra la Lega e il M5s, ovvero il programma di governo, sull'Ilva c'è scritto: «Ci impegniamo, dopo più di trent’anni, a concretizzare i criteri di salvaguardia ambientale, secondo i migliori standard mondiali a tutela della salute dei cittadini del comprensorio di Taranto, proteggendo i livelli occupazionali e promuovendo lo sviluppo industriale del Sud, attraverso un programma di riconversione economica basato sulla progressiva chiusura delle fonti inquinanti, per le quali è necessario provvedere alla bonifica, sullo sviluppo della green economy e delle energie rinnovabili e sull’economia circolare. Anche al fine di prevenire misure sanzionatorie da parte dell’Unione Europea prevediamo misure volte all’adeguamento degli standard di contrasto all’inquinamento atmosferico secondo le norme in vigore». Che cosa significa in concreto?

Senza entrare nel merito delle soluzioni (ma prima o poi dovranno farlo), leghisti e pentastellati invertono le priorità rispetto alla vicenda storica del siderurgico: la salute della gente e la salvaguardia ambientale prima della produzione. Ma il focus della questione lo individuò tanti anni fa l'allora vicesindaco di Taranto, il compianto Nico Indellicati, al secondo convegno europeo delle città siderurgiche. Presente Etienne Davignon, commissario europeo per l'Energia e gli Affari industriali: uno che ha presieduto il gruppo Bilderberg.

Il convegno si tenne a Taranto il 6 e il 7 aprile 1980. Indellicati, assessore all'Urbanistica, evidenziò: «Nella nostra esperienza di relazione industriale, tra azienda e città l'assenza di contestualità ha rappresentato nei fatti l'elemento di maggiore sofferenza e maggiore compromissione del quadro complessivo della nostra realtà urbana». Mi sembra di rivederlo nella sua figura slanciata, l'espressione mite ma ferma, severa all'occorrenza. E lo sguardo a sondare l'onestà intellettuale del suo interlocutore mentre spiegava, a nome dei tarantini che rappresentava al conte belga impegnato nell'integrazione europea: è vero, quando Taranto volle il siderugico eravamo tanto poveri che l'avremmo costruito anche in piazza della Vittoria, come disse l'allora sindaco Angelo Monfredi. Ma adesso, dopo che il disastro di Seveso ha aperto gli occhi in Italia sui danni dell'industrializzazione indifferente alle ragioni dell'ambiente, è giunto il momento di ripensare il rapporto tra la città e la fabbrica. «Ecco perché, pur non potendo disconoscere che non v'è possibilità di crescita senza fasi alterne di squilibrio e ricomposizione di questi squilibri, dobbiamo al tempo stesso denunciare con tutta chiarezza che questa constatazione data alla riflessione del convegno come per assoluta, rischia di affermare una sorta di fatalismo sommerso che non vale certamente per costruire la nuova Europa cui si ispira il signor Davignon. Ancor peggio sarebbe se questo fatalismo coprisse anche una sorta di cinismo produttivistico. E questo ancor meno varrebbe per costruire la nuova Europa».

Più di trent'anni dopo, un altro tarantino illustre che non c'è più, Alessandro Leogrande, avrebbe riflettuto: «Oggi Taranto mi appare una città molto fragile, incapace di gestire l’industrializzazione caotica che l’ha permeata. Ma perché – mi chiedo – solo col tempo ho visto tutto ciò con maggiore chiarezza? Perché solo col passare degli anni mi sono accorto di cosa effettivamente comportasse il fatto che l’enorme area industriale sia stata costruita in una posizione realmente attaccata alla città, senza soluzione di continuità, senza una zona cuscinetto ad arginarne l’impatto? Perché la percezione della insostenibilità di tutto ciò, anche per i suoi abitanti, si è fatta strada solo in seguito – con il dilagare, in particolare, di malattie che paiono legate al ciclo della produzione?».

Indellicati, ancora: «Dopo la prima fase del mito del IV centro siderurgico, mano mano è riaffiorata sempre più la coscienza storica di avere già vissuto, in termini drammatici, la unidirezionalità della nostra struttura economico-sociale per molti decenni tutta centrata sulla sua funzione militare. I tarentini sanno che cosa accade quando una economia modellatasi in termini unidirezionali entra in crisi e produce un conseguente globale processo di squilibrio. Da questa nostra esperienza, dunque, sorge la rivendicazione legittima e fondata che ci si avvii (ed è tempo che ci si avvii) lungo una direttrice di sviluppo non unidirezionale ma diversificato».

Un programma per gli anni Ottanta, insomma. Se Taranto avesse avuto una classe dirigente all'altezza. Se non avesse costretto l'orgoglioso Nico, qualche anno dopo, a lasciare la politica e a ritirarsi nell'amata Martina Franca come stimato direttore didattico della scuola elementare Marconi, mentre si preparavano le condizioni per i centocinquanta morti ammazzati nelle faide malavitose tra la fine del decennio e l'inizio del successivo. Fino all'arrivo di Giancarlo Cito e, più tardi, del dissesto finanziario che, a distanza di tredici anni, dicono che potrebbe perfino riproporsi.

Ecco perché, se alle parole del contratto si vorrà dare qualità e forza progettuale, occorrerà che chi, come Rosalba De Giorgi, crede realmente in Taranto e vorrebbe organizzarne il futuro, magari attraverso una progettualità seria e sostenibile di smart city da portare sui tavoli di Roma e Bruxelles, abbia contezza di quello che questo signore distinto e socialista già nel 1980 fu capace di dire, da pari a pari, al rappresentante dell'Europa. Il recupero della contestualità tra la città e la grande fabbrica, il superamento del fatalismo sommerso e del cinismo produttivistico, una direttrice di sviluppo non unidirezionale ma diversificato, delineano una visione programmatica assolutamente attuale. E Perrini, scarpe grosse e cervello fino, dice un'altra cosa da considerare adesso che tutto sta ricominciando: Arcelor Mittal non si isoli come i Riva, ma sia protagonista nel territorio. Affinchè avvenga, però, servono referenti territoriali e nazionali con la schiena dritta come Nico Indellicati, non mediocri politicanti che ambiscano ad arruolarsi come executive class di coloro che potrebbero essere percepiti come i nuovi padroni di Taranto.

Nico Indellicati fotografato dal maestro Benvenuto Messia, amico fraterno a Martina Franca. 

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