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Direttore Pietro Andrea Annicelli

Don Michele si congeda dal Carmine: «Ho cercato di condividere le ansie dei fratelli e delle sorelle»

di Redazione

07/10/2016 Società

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Don Michele si congeda dal Carmine:  «Ho cercato di condividere le ansie dei fratelli e delle sorelle»

 

«Don Michele, ti ricorderai di noi?». «Moh! Vediamo». Nella battuta sdrammatizzante intercorrono trentun anni di apostolato. Oggi, per don Michele Castellana, è stato l'ultimo giorno da parroco della Chiesa del Carmine. Ha servito una comunità che dalla Chiesetta dello Spirito Santo arriva alla Chiesetta di Sant’Irene e Cristo Spirante nella Contrada Carpari. Proseguirà al Santuario della Madonna della Sanità dove coadiuverà il parroco, don Luigi. 

Don Michele, che bilancio fare di tutto questo tempo al Carmine?

«Trentun anni sono abbastanza nella vita d’una persona, sicuramente pochi rispetto alla storia della Chiesa. Sono tanti per l’esperienza d’un sacerdote. Il Signore mi ha chiamato a servire questa parte del regno di Dio che è un quartiere a me molto caro, ma abbastanza complesso per le varie problematiche sociali che lo interessano. Quando l’allora arcivescovo monsignor Guglielmo Motolese mi chiese di fare il parroco al Carmine, imposi a me stesso di condividere i problemi e le ansie delle persone attraverso la vicinanza alle famiglie. Perciò quasi ogni anno mi sono recato a benedire le case per conoscere come vivevano gli abitanti del quartiere e quale poteva essere la mia opera concreta nei loro confronti. Mi sono interessato alle loro preoccupazioni: solitudine, paura di vivere, problemi di droga, situazioni di detenzione con tutto quello che ne conseguiva per le famiglie. Ho collaborato con il comitato del quartiere andando nelle scuole e relazionandomi con i dirigenti e gli insegnanti in favore dei ragazzi. Molti di loro frequentavano il catechismo, per cui anche quello era un momento per continuare il rapporto con loro e le loro famiglie. Ho cercato di servire Dio servendo i fratelli e le sorelle: è stato questo il segreto dei miei anni al Carmine».           

Non ha aspettato, quindi, l’invito di Papa Francesco per mettere in pratica quella Chiesa delle periferie a cui il pontefice ha richiamato la comunità dei sacerdoti non appena eletto.

«Ho provato a rendere la parrocchia un riferimento per molti non solo come centro religioso, ma come luogo dove ottenere sostegno spirituale, morale e talvolta anche economico. Grazie ai miei collaboratori, abbiamo cercato di renderla viva organizzando incontri con le famiglie nei quali condividere la catechesi, ma anche occasioni di approfondimento culturale e delle problematiche sociali. Sono andato a trovare i detenuti nelle carceri facendo a volte anche centinaia di chilometri per raggiungerli. Ho servito le quasi duecentocinquanta famiglie che vivono nelle contrade, e che si relazionano direttamente alla Parrocchia del Carmine, girando per le campagne, le masserie, le aziende. Ogni sabato ho celebrato il catechismo e la messa, amministrato i sacramenti della confessione e della comunione».   

Quali sono le difficoltà che ha incontrato?

«Quelle della società di oggi: indifferenza alla religione e alla solidarietà, relativismo, egoismo, salvaguardia esasperata dei propri interessi. Noi martinesi siamo tradizionalmente restii ad aprirci agli altri ed è molto difficile superare questo senso, direi innato, di chiusura. Si tratta d’un atteggiamento che provoca egoismo. La logica è: se io sto bene, non m’interessa come stanno gli altri. Qualcosa è migliorato grazie al risveglio e all’impegno delle associazioni di volontariato. Molto, però, resta da fare».    

Non le chiedo dell’incontro con Giovanni Paolo II in visita a Martina Franca il 29 ottobre 1989, quando lei effettuò una indimenticabile cronaca in diretta dagli altoparlanti per i martinesi che seguirono la papamobile lungo via Taranto e Corso Italia, fino all’arrivo di Papa Woytila sullo Stradone. Le chiedo invece che cosa ha caratterizzato particolarmente la sua esperienza sacerdotale.

«Ringrazio per questa domanda. Dividerei la mia vita di sacerdote in tre fasi. La prima è stata l’attività di rettore del seminario diocesano ai Paolotti. Fui chiamato a ventinove anni da monsignor Motolese. Quando avvenne, mi sorprese. A distanza di tempo però capisco la capacità intuitiva del futuro che è stato un tratto caratteristico della sua maniera di essere. Scherzando, monsignor Motolese allora disse: “Se le cose vanno male, ti mando via subito e la colpa è tua. Se vanno bene, è merito mio”. Mi occupai per dodici anni della formazione dei futuri sacerdoti. Il secondo momento ha riguardato l’insegnamento della Storia e della Filosofia nei licei classici e scientifici della provincia, che mi ha consentito di condividere da un altro ambito, quello del docente, le problematiche della scuola, dei giovani, delle famiglie. Il terzo momento è stata l’attività di parroco al Carmine. Se devo parlare di un’attività in particolare, scelgo la vicinanza umana e spirituale ai carcerati. La loro sofferenza mi ha sempre toccato indipendentemente da quello che avevano fatto. Non toccava a me giudicare. Se c’era una persona che soffriva, se insieme soffriva una famiglia, mi sentivo coinvolto a prestare la mia opera per migliorare la loro condizione. Mi è capitato di condividere le loro problematiche di emarginazione, di essere bersagli di pregiudizi. Quanto ho potuto, ho cercato di essere presente e di avere con loro un rapporto buono».  

Com’è cambiata Martina in tanti anni?

«Ѐ cambiata nel bene e nel male. Nel bene se penso al salto di qualità che è stato fatto dalle associazioni del volontariato sia d’ispirazione laica che religiosa. Queste associazioni hanno dimostrato di essere capaci di convogliare parecchie forze in una società che a sua volta ha manifestato un’apertura ampia al volontariato. Superando, in questo caso, l’innato egoismo proprio di noi martinesi. Martina è cambiata nel male se si considera una mentalità che continua a esprimere il limite, anche culturale, nel non riuscire a volare alto. Questo provincialismo che ci porta a non sapere, a volte, se siamo un paese o una città, nel passato si è manifestato in diversi guasti nello sviluppo urbanistico. Devo però ravvisare un cambio di prospettiva in questi ultimi anni. Ciò anche per merito di un’Amministrazione comunale, l’ultima, che ha fatto tante cose buone che condivido. Senza che la mia opinione debba essere interpretata come un’adesione politica, ho apprezzato molti interventi, soprattutto nel sociale e nella cultura, che hanno valorizzato il territorio legando i quartieri, le contrade, a un rinnovato senso di appartenenza. Martina resta una città di luci e di ombre. Sono però fiducioso che lentamente si lavori per la luce».

Nella home, don Michele Castellana con i parrocchiani del Carmine. In alto, mentre celebra messa. In basso, con gli allora giovani dell'Azione Cattolica in una foto di alcuni anni fa.  

  

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