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Marco Ferrante a occhi chiusi (senza gin tonic)

di Pietro Andrea Annicelli

20/01/2017 I libri

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Marco Ferrante a occhi chiusi (senza gin tonic)

I superpotenti del mondo inviteranno prima o poi anche lui alle riunioni del Gruppo Bilderberg come hanno fatto con la gloriosa Dietlinde Gruber che l’ha intervistato sul nuovo romanzo? Chissà. Di sicuro non mancano, cercando nella rete notizie di Marco Ferrante, frizzanti resoconti di eventi con elenchi di vip.

Non vengono dall’ambiente esoterico del vegliardo David Rockefeller e dei suoi sodali molto esclusivi. Sono piuttosto i contemporanei d’un certo generone capitolino molto allargato variamente mescolati ai neoricchi e agli emergenti nelle professioni e nei media. Un esempio, ancorché datato? «In un’atmosfera animata e divertente, un po’ belle époque contemporanea, ecco tra gli altri Marella Caracciolo Chia, il direttore del Tg Uno Augusto Minzolini, l’attore Francesco Siciliano, il vice presidente di Alta Roma Sandro di Castro, Sidney Rome, Valentino e Mirella Martelli, lo scrittore Marco Ferrante (scicchissimo il collo di pelliccia del suo paltò di vigogna) con la moglie Raffaella Giugni».

Dagospia da tempo colleziona foto dei coniugi Ferrante che attraversano, mobili e ironici, il senso mondano della romanità. Lei sempre elegante e sobria. Lui sorridente e di buon umore. Eppure sono quisquilie, avrebbe detto ammiccando il principe de Curtis di Bisanzio, rispetto alla prova del fuoco a cui Marco si è sottoposto nella natia Martina Franca l’11 dicembre scorso presentando il suo secondo romanzo Gin tonic a occhi chiusi, Giunti. 

Avrei voluto vedere voi sfidare gli sguardi inquisitori dei frequentatori del retro villa comunale nei leggendari anni Ottanta tutti schierati nell’auditorium della Fondazione Paolo Grassi, tutti più o meno conosciuti da una vita, tutti più o meno pronti a cogliere ogni minimo cedimento della chiara fama di battutista instancabile e di sfottitore capo fin dalla più tenera età. E dopo esserne uscito indenne e vittorioso, Marco Ferrante può veramente andare dove vuole. Ah: senza chiedere permesso neppure ai bildebergers.

Capiamoci. Per colui che (opinione personale, ma non credo di esagerare) ha le carte in regola per essere uno dei migliori scrittori italiani contemporanei, presentare il suo ultimo, eccellente romanzo nella terra avita era più o meno come camminare sui carboni ardenti: se non lo fai, non sai se continuerai a camminare altrove. Alla fine, io triumphe! Facendo finta di niente intanto che, scrutando la platea, via via riconosceva la fidanzatina della scuola materna, quello che aveva imbrogliato giocando con le figurine davanti alla parrocchia, la professoressa innamorata della sua scrittura immaginifica, quello che aveva convinto a candidarsi nel Partito Liberale, quello che gli era parente e non voleva farlo sapere e quello che non gli era parente ma si vantava di esserlo. Tutta questa fichizia non è un gioco, avrebbe detto ai tempi del suo primo romanzo: Mai alle quattro e mezzo, Fazi Editore, nel lontano 1998.

Due cose. La prima è che, per avere un’idea della decadenza sentimentale e morale del ceto possidente in Italia ai tempi del jobs act, la lettura di Gin tonic a occhi chiusi può avvenire insieme a un altro eccellente romanzo d’un pugliese: La ferocia di Nicola Lagioia, Einaudi, vincitore nel 2015 di quel Premio Strega nella cui cinquina finalista finì, a suo tempo, Mai alle quattro e mezzo. Entrambi forniscono, ognuno a proprio modo e in maniera non sovrapponibile, squarci di realtà.

La seconda è che, parafrasando l’assunto di Mark Hertsgaard che le canzoni dei Beatles piacciono perché fanno stare bene, la prosa ferrantiana si legge volentieri perché, appunto, fa stare bene. Può perfino risultare terapeutica tanto è gradevole e a tratti divertente senza cedere un'unghia di stile. «Riesce a entrare negli interstizi dei suoi personaggi con equilibrio e acume» ha scritto di lui Aldo Grasso, il più temibile dei critici televisivi, sul Corriere della Sera. Pietrangelo Buttafuoco, invece, di Gin tonic a occhi chiusi: «Il racconto della famiglia Misiano diventa saga per mettere in scena, con le vicende di tre fratelli, un’Italia battezzata nell’istante di un dettaglio. A un certo punto c’è un drone che si alza in volo. Parte verosimilmente da un negozio di fiori e arriva su un terrazzo di Roma per recapitare rose rosse a una signora. È un testacoda semantico o, insomma: aggiorna con “mettete dei fiori nei vostri droni”. Ancora meglio: quel drone coi fiori risolve la scena con cui prende avvio La dolce vita di Federico Fellini. Ricordate? La statua del Redentore e i cieli dell’Urbe. Quindi gli occhiali da sole. Quelli di Marcello Mastroianni e poi quelli di Anouk Aimée. A occhi chiusi».

Un’eccellenza di Marco è trasformare in personaggi interessanti, talvolta intriganti, individui immaginari dallo scarso appeal. Nessuno che non fosse coinvolto nel loro microcosmo relazionale s’interesserebbe più di tanto dei fratelli Misiano. Che invece, raccontati da lui, suscitano curiosità e voglia di continuare a leggere le loro vicissitudini trascurabili e in fondo banali. Non si tratta infatti, come in Casa Agnelli, Mondadori, 2007, uno dei suoi due libri giornalistici (l’altro è Marchionne, Mondadori, 2009), di personalità dalla biografia indimenticabile come Virginia Bourbon del Monte, madre di Gianni Agnelli e donna dalle qualità non comuni. I Misiano sono invece il risultato prevedibile, quasi inevitabile nell’adattamento alla realtà e nella resilienza emotiva, della progressiva dissoluzione d’un certo ambito familiare romano e italiano. Borghese più per censo che per senso del ruolo. E i cui meccanismi psicologici vengono messi a nudo con rigore ironico ed efficace, implacabile nell’ineffabile distacco complice dell’autore.

Roma è il centro dell’universo narrativo di Marco Ferrante. Nei quasi vent’anni che separano i due suoi romanzi, e che hanno fatto pensare a qualcuno che proprio lui si nascondesse dietro lo pseudonimo pluripremiato dell’omonima Elena, la Città eterna ha subìto, ritiene, una certa decadenza, sebbene resti indiscutibile la sua levatura tra le grandi città del mondo. Mi sbaglierò, ma un aspetto di questa decadenza romana è nel ridimensionamento della protagonista femminile. In Mai alle quattro e mezzo Lola, definita «la più grande bellezza che si sia ammirata da queste parti negli ultimi dieci anni, una bellezza degna di Londra o di Hong Kong». La più convenzionale Anna Rangone in Gin tonic a occhi chiusi: «Bella, sobria, genere tutto-a-posto (…). Identica a una celebre cantante pop». Cioè Dido, il cui fascino non regge quello di donne stellari come, per intenderci, Charlize Theron o Madalina Ghenea, di cui Lola sarebbe stata evidentemente una plausibile competitor.    

Il sogno è finito, si è ritornati sulla terra. La durata, che sottintende il contenimento del danno, è la misura del successo. «Tra tutte le cose misteriose, il denaro è una delle più misteriose»: è una frase emblematica del contesto narrativo. Esprime un credo, non una verità. E se il patrimonio può essere un aspetto pressoché costitutivo della borghesia, a cui l’autore sente profondamente di appartenere secondo uno spirito e un senso che vanno ben oltre l’adesione a una classe sociale, il possesso e la disponibilità fini a sé stessi, quelli che convincono Paolo Misiano a regalare una collana di Bulgari alla sua amante «in odore di meretricio» dando inizio ai suoi guai, indicano il dissolvimento di valori, appunto, borghesi.

E se per Marco Ferrante essere borghese significa, parole sue, esprimere la volontà d’impegnarsi affinché il futuro dei figli possa essere migliore di quello dei padri, il che presuppone una forza caratteriale indicativa d’una personalità alla quale i mezzi e il patrimonio siano eventualmente funzionali e non viceversa, i personaggi di Gin tonic a occhi chiusi sono sostanzialmente antiborghesi. Ciò perché non vanno oltre l’orizzonte sociale del loro reddito, per quanto cospicuo. E lo sono anche nella misura in cui esprimono comportamenti e abitudini che sottintendono chiusura: quindi, anti moderni. Perché la modernità, storicamente, è un’invenzione della borghesia.

Ma alla fine, piuttosto che la Misiano story, è Marco Ferrante a essere realmente interessante. Non solo affinché scriva, presto, il suo terzo romanzo. Ma anche perché chi lo conosce e lo apprezza personalmente può divertirsi a cercarlo in dettagli che finiscono per essere indicatori d’una estetica ammirabile. Mi riferisco innanzi tutto alla bella copertina con l’immagine, di Slim Aarons, di lady Daphne Cameron fotografata in una casa elegante di Palm Beach, in Florida, nel 1959. Appartiene alla collezione del celebre fotografo dell’alta società statunitense e britannica, scomparso nel 2006, custodita dalla Getty Images Gallery di Londra, il più ampio archivio fotografico indipendente del mondo.

Altre immagini di Aarons, ambientate in dimore aristocratiche di grande eleganza formale, sono nel video promozionale del romanzo il cui sottofondo sonoro è Lady grinning soul, languida canzone conclusiva di Aladdin sane, 1973, il disco di David Bowie con la sua immagine forse più conosciuta: il volto attraversato dal trucco a forma di saetta rossa e blu. Sarà rappresentativa, nella parabola dell’artista, del passaggio dal glam rock all’individualismo aristocratico che da allora lo contraddistinguerà. Un verso è riassuntivo di Gin tonic a occhi chiusi: «She will be your living end». Lei sarà la tua fine vivente.

L’estetica di Slim Aarons e quella del Bowie iconico che incontra l’alta società e l’alta moda (Lady grinning soul compare in un recente documentario sulla grande columnist Diana Vreeland), così come le immagini nel filmato d’una miriade di oggetti allusivi d’uno stile che solo apparentemente è connesso al romanzo, c’entrano poco con i Misiano. Dicono molto, invece, dell’idea borghese di Marco Ferrante. E anche della sua aspirazione a una certa bellezza perduta, come un mitico mondo magico, ai cui sprazzi nella vita reale tendere con pragmatica determinazione. Perché da qualche parte resiste la vision di John Keats: «"La bellezza è verità, la verità è bellezza": questo è tutto quello che sapete sulla Terra, e tutto quello che è necessario che sappiate».

Nell'immagine in bianco e nero, Marco Ferrante fotografato da Paolo Rizzo per l'interno di copertina di Gin tonic a occhi chiusi (riprodotta per gentile concessione dell'editore Giunti). Nelle altre, Marco Ferrante insieme a Pietro Andrea Annicelli, direttore di Cronache Martinesi (alla sua destra), Rino Carrieri, direttore della Fondazione Paolo Grassi (alla sua sinistra) e Anna Maria Montinaro, presidente dei Presìdi del Libro, fotografati da Francesca Tozzi (prima foto) e Agostino Convertino (tutte le altre) l'11 dicembre 2016 durante la presentazione a Martina Franca di Gin tonic a occhi chiusi.     

 

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