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Direttore Pietro Andrea Annicelli

Le canzoni e i dischi più belli del 2017

di Mark Aymondi

09/01/2018 Musicando

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Le canzoni e i dischi più belli del 2017

 

1. Truth Kamasi Washington. «Il jazz è il tipo di musica che può assorbire molte cose ed essere ancora jazz». Lo ha detto Sonny Rollins, classe 1930, che può ancora apprezzare su questa terra, magari insieme a Pharoah Sanders mentre l’immenso John Coltrane lo fa dall’alto dei cieli, l’effetto della sua lezione sull’allievo Kamasi Washington. Truth è la free improvisation cosmica in cui confluiscono e s’innalzano le precedenti, brevi composizioni dell’album Harmony of difference. È un inno alla convivenza, alla bellezza, alla coralità dell’umano come superamento dei conflitti. È quello che vorremmo sempre dell’America.    

2. Wait for her Roger Waters. Ispirata nel testo al poeta palestinese Mahmoud Darwish (1941-2008), impersonata nell’eccellente video dall’attrice pugliese Azzurra Caccetta, la donna che Roger Waters vagheggia come personale redenzione dai mali del mondo è una rifugiata, ballerina di flamenco, che nel viaggio attraverso il mare ha perso la figlia. La riappropriazione di sé nonostante l’angoscia irrimediabile del ricordo può avvenire attraverso l’amore dell’uomo che sa capire e lenire, prima di tutto, le ragioni del dolore. È una nobile dedizione paziente che mancava ai sentimenti che la poesia di Waters aveva finora evocato. L’equilibrio della resilienza. 

3. Ti fa stare bene Caparezza. Non amo il rap sebbene Caparezza sia uno che vale. Con Ti fa stare bene realizza quella «canzone un po’ troppo da radio», come canta, capace di entusiasmare senza cedere un centimetro alla banalità. È un funk mediterraneo, sentimentale, ideologicamente intelligente nella propaganda slow: «Voglio essere superato come la Bianchina dalla super auto. /Come la cantina dal tuo super attico, come la mia rima quando fugge l’attimo. /Sono tutti in gara e rallento fino a stare fuori dal tempo. /Superare il concetto stesso di superamento mi fa stare bene!». Il coro di bambini nel ritornello è epico, geniale e la trasforma in una canzone per tutti.     

4. Ravens Mount Erie. Phil Elverum, ovvero Mount Erie, nell’estate del 2016 ha perso per una malattia la moglie Geneviève, ancora giovane, restando con una figlia piccola. L’elaborazione del dolore, scarna e mirabile, è nell’album A crow looked at me. Registrazione domestica. Chitarra, voce e poco altro. Ravens è forse la più bella e commovente delle canzoni d’un atto di responsabilità che cerca di testimoniare come, attraverso le immagini del ricordo, l’amore e la bellezza riescano a superare la distruzione della fine. «Niente muore qui. /Ma qui è dove sono venuto a piangere /per immergermi con te, /con la tua assenza. /Ma continuo a raccoglierti mirtilli». 

5. She moves with the fayre Paul Weller featuring Robert Wyatt (Villagers remix). È una incantevole versione alternativa a quella, più black-oriented, che si trova nella scaletta ufficiale dell’album A kind revolution. Qui la morbida chitarra acustica si fonde con i ritmi, i cori, gli umori, i rumori, gli spiriti d’un universo della mente in cui la cornetta del grande Robert Wyatt incanala l’acid jazz verso sonorità afro jazz. Il remix degli irlandesi Villagers offre reminiscenze celtiche che delineano, con senso di meraviglia, l’ammirazione per la grazia esperienziale d’una bambina nel mondo. Almeno una volta l’anno Paul Weller fa una grande canzone. Eccola.   

6. Home free David Crosby. È una maniera squisita di concludere, in un tripudio introduttivo di chitarre acustiche, l’album Sky trails. Il cantato evoca quell’approccio luminoso alla vita, laico e panteista, che ha reso memorabile David Crosby nonostante le cadute dolorose del suo percorso esistenziale. Sembra quasi miracoloso che un uomo di settantasei anni riesca a esprimersi con tanta grazia attraverso una vocalità ancora così chiara ed espressiva. «E guardo dalla finestra /il cielo che mi sovrasta / e pensando dico a me stesso /come sono fortunato /perché ho la mia casa e vivo qui /come un bambino nella coperta che non ha nulla di cui aver paura».    

  

7. Hazy days Raoul Vignal. L’esordio del cantautore di Lione Raoul Vignal con l’album The silver veil è stato folgorante. La chitarra suonata con la tecnica fingerpicking ne è la protagonista assoluta, generando una grande tensione spirituale che si sviluppa nel rigore espressivo. Hazy days è la canzone iniziale, proposta anche come singolo, da cui si estende l’intera narrazione. Lo scenario è una terra in cui le presenze umane sono fuggevoli e indistinte, volatili, fuse negli elementi e nel paesaggio. Musica ascetica in cui l’evanescenza del desiderio, romantica ed essenziale, diventa una vertiginosa rincorsa a una dimensione esistenziale definita.    

   

8. Forever & day Wire. Squadrata e sentimentale nel cantato di Graham Lewis, Forever & day è la dimensione più vicina al pop d’uno dei gruppi più importanti del rock inglese, sopravvissuto all’era del punk per fermarsi negli anni Novanta e tornare nel 2003. Si tratta d’una identità stilistica che dimostra eclettismo. Nella ricerca espressiva, ciò rende i Wire non soltanto un riferimento intergenerazionale, ma un orizzonte irraggiungibile per le nuove leve. Il battito metronomico del ritornello, insieme all’intensità trascinante della performance vocale, sviluppa una sensibilità che la trasforma in una canzone con cui ballare.  

9. Filter me through you Dream Syndicate. Il nuovo album del Sindacato del Sogno inizia irresistibilmente con questa canzone epica e sentimentale, sangue del sangue della narrativa rock che dai Byrds arriva ai Rem attraverso i Velvet Underground, i Television, gli Smiths, Neil Young con i Crazy Horse … Gli echi psichedelici restano in equilibrio grazie al maestoso gioco di chitarre a cui la voce di Steve Wynn fa da collante. Il suono è possente ma non saturo, capace d’infondere quell’energia urgente che spesso ha trasformato il rock in verità. «Se non posso averti /o avere tutto quello che mi ricorda te /andrò avanti /quindi potrei mancarti /quando me ne sarò andato». 

10. The neighbour The Clientele. Una canzone come questa, nella sua apparente semplicità e freschezza disarmante, sembra esistere da sempre. È un jingle jangle londinese un po’ barocco, un po’ psichedelico, che fluisce con naturale armonia senza tempo collegando cielo e terra, sprigionando colori e profumi tenui che mescolano il presente al passato. Come la vitalità rigenerativa d’una cascata, la musica cesella paesaggi con sensibilità agrodolce, mentre la vita scorre con il suo carico quotidiano d’incertezze e di punti fermi verso il buio della sera, dove «la festa è finita e i cipressi sono spogli» e «nel corridoio, il volto di Dio sorride».     

  

* * *

1. Hippie dixit Amerigo Verardi. Cento minuti per un disco monumentale, bellissimo, pubblicato alla fine del 2016 ma che tutti hanno ascoltato dal mese successivo. Sentimentalmente radicato in una certa idea dell’inscindibilità sincretica, solare, tra l’Oriente, il Mezzogiorno d’Italia e d’Europa, il Nord Africa e la San Francisco di cinquant’anni fa. Non lo dicono solo il titolo ironico e la copertina debitrice del Sunfighter di Paul Kantner e Grace Slick, ma l’approccio tematico, musicale, spirituale che unisce psichedelia e Valle d’Itria, acid rock e Mediterraneo, Beat Generation e sofferenze giovani e meno giovani di ieri e di oggi in un flusso ammaliatore di coscienza. Sintesi, splendida, di trent’anni di attività non addomesticata. Claudio Rocchi, da lassù, sorride. 

2. Is this the life we really want? Roger Waters. «E se fossi un drone /che pattuglia i cieli stranieri /con i miei occhi elettronici per orientarmi/ e per l’effetto sorpresa /avrei paura /di trovare qualcuno in casa». Segue il suono irresistibile d’una esplosione che frantuma vetri. Fa venire in mente, per associazione storica, l’urlo straziato di Careful with that axe Eugene: era un’altra vita. Il ritorno di Roger Waters fa i conti con un mondo incattivito dai conflitti e con una memoria, quella dei Pink Floyd, continuamente citata, quasi a ribadirne l’attualità perenne nell’universo sonoro collettivo. No, la vita che viviamo non è quella che vogliamo. Ma l’amore può cambiare le asprezze cieche del carattere se si sceglie di redimersi attraverso la cura della sofferenza.     

3. Sky trails David Crosby. Ogni suo nuovo disco è come se potesse essere l’ultimo. L’urgenza espressiva è chiara nei tre degli ultimi tre anni, uno più bello dell’altro, ciascuno ideale seguito senile di If I could only remember my name, 1971, tra i più grandi d’ogni epoca. Questo è un lavoro elegante che ritorna al pop e al rock venati di jazz dopo l’esclusivismo acustico del precedente. Crosby ritrova alla produzione il figlio James Raymond e la sua cura artigiana negli arrangiamenti, tra l’introduttiva She’s got to be somewhere e le perle Sky trails e Home free. Nel rinnovare l’amore per gli Steely Dan, Joni Mitchell, il folk californiano, il rock di protesta, si staglia il talento inimitabile d’uno dei più grandi artisti rock viventi: una voce unica che il tempo non ha offuscato.   

4. Ensen Emel Mathlouthi. «È importante esprimermi come una donna creativa, tunisina, araba, proveniente da una cultura musulmana ma completamente libera» ha dichiarato l’autrice. Celebrazione dell’umano (è il significato di ensen, transilitterato dall’arabo), questo disco rappresenta un avvenimento per l’interpretazione vocale e per gli arrangiamenti. Supera l’idea di ponte tra la cultura musulmana e quella occidentale per conquistare un senso e una modalità, realizzativa e comunicativa, universali. Si avverte una profonda sincerità nel cercare, individuare e raccontare quello che ci rende umani attraverso un lirico e partecipato anelito di libertà. Cantante di protesta come l’amata Joan Baez, Emel Mathlouthi è un’artista folgorante. 

5. Harmony of difference Kamasi Washington. Questa musica virtuosa, poco più di mezz’ora (il disco è considerato, impropriamente, un ep), è stata realizzata per accompagnare una proiezione di AG Rojas, autrice del videoclip di Truth, con illustrazioni della sorella di Kamasi, Amani. Se due anni fa l’esordio di The epic era un triplo album, questa nuova pregevole narrazione sentimentale individua nei valori delle moltitudini plurali che hanno costruito l’America la possibilità del suo riconoscersi su un senso comune. Sono i titoli delle composizioni che confluiscono in quella conclusiva: desiderio, umiltà, conoscenza, prospettiva, integrità, verità. È un jazz classico, ma fuori dagli schemi, che supera le diffidenze e le differenze nel nome dell’universalità dello stare insieme.

6. A kind revolution Paul Weller. Riprende la naturalezza del songwriting nell’ultimo album di Paul Weller, arricchito da tante idee che delineano, alla fine, uno dei suoi lavori più importanti. Immediatamente dietro agli irraggiungibili Wild wood e Stanley road, magnetica come e più di As is now e 22 dreams, la rivoluzione o evoluzione gentile del titolo è la reinvenzione d’un suono che è un marchio di fabbrica. Tra sprazzi soul, r&b, pop, acid e afro jazz, dub, funk, si snodano splendide canzoni come The impossibile idea, She moves with the fayre, One tear, Long long road. Compagni di viaggio con cameo, Robert Wyatt e Boy George. La classe dell’arte musicale che costruisce un immaginario.   

7. Music for the age of miracles The Clientele. È un disco sognante di chamber pop che scorre via apparentemente leggero per insinuarsi nel profondo come un fiume carsico, fissando la sensazione di attraversare un flusso di bellezza. A sette anni di distanza dall’ultimo lavoro, il gruppo inglese torna con il suo raffinato romanticismo senza tempo né fretta, arioso e sognante, moderatamente psichedelico. Sono canzoni sobrie e poetiche, eppure ricche negli arrangiamenti calibrati e caleidoscopici, evocativi e malinconici, che fanno immaginare spazi aperti ed esposti allo scorrere naturale degli elementi. È musica rassicurante, ma non innocua né domata. Le stagioni scorrono e il tempo si dilata senza assorbire le emozioni, ma restituendone il fascino nei dettagli. 

8. How did I find myself here? The Dream Syndicate. A trent’anni dall’ultimo disco, dopo cinque di concerti, i Dream Syndicate tornano con un nuovo album che ripropone quel paisley underground, psichedelia + garage rock, del quale furono tra i massimi interpreti negli anni Ottanta. All’epoca quel suono era considerato datato e a maggior ragione dovrebbe esserlo oggi. In realtà, ora come allora, il valore discende dalla sincerità dell’ispirazione. Ecco quindi che la domanda retorica del titolo non si pone: il Sindacato del Sogno si trova qui con questa musica perché è bella e piace. È attuale perché ce n’è bisogno. Se si vuole un disco rock che suoni come tale, eccone un esempio eccellente, onesto, vibrante e significativo. 

  

9. Elwan Tinariwen. Il desert blues scarno e insistente del gruppo nordafricano si alimenta con la forza delle percussioni, dei canti a chiamata e risposta, delle chitarre che s’intrecciano nella narrazione. Originari del Mali, i Tinariwen sono costretti all’esilio dalla guerra civile. Il loro ultimo lavoro, che ha per titolo la parola elefante, quasi a voler simboleggiare la possenza e la memoria evocate dalla loro musica, è stato registrato tra il Marocco e la California. Racconta del rapporto tra la vita nomade, propria dei tuareg, con l’ambiente naturale. I poliritmi ipnotici, a cui hanno collaborato musicisti berberi gnawa, delineano lo spazio e il tempo. Camei non indispensabili ma preziosi:  Kurt Vile, Alain Johannes, Mark Lanegan, Matt Sweeney.  

10. Freedom highway Rihannon Giddens. Dodici canzoni, nove originali e tre classici del folk blues, formano il secondo album di Rihannon Giddens. È un disco politico, crepuscolare. Recupera la grande tradizione orale americana attraverso sonorità acustiche ponendo la voce in primo piano. Non è passatismo, ma collegamento tra le epoche denunciando soprusi validi in ogni tempo per ogni etnia e religione. Protagoniste sono le donne. Il messaggio è inequivocabile: «Non possiamo lasciare che l'odio ci divida. Non possiamo lasciare che l'ignoranza ci sminuisca. Non possiamo lasciare che coloro la cui avidità riempie ogni ora di veglia conquistino il nostro Paese. Non possono prendersi l’America, a meno che noi non gliela lasciamo prendere».  

 

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