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Direttore Pietro Andrea Annicelli

Alberto Triola: «Il Festival? Aspettatevi di tutto»

di Redazione

13/07/2018 Cultura

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 Alberto Triola: «Il Festival? Aspettatevi di tutto»

 

Alberto Triola, milanese, direttore artistico del Festival della Valle d’Itria dal 2010, è probabilmente l’esempio attuale più significativo di quel legame tra Milano e Martina Franca che, da Paolo Grassi in poi, ha rappresentato una delle principali risorse per il Festival. Gli abbiamo chiesto della quarantaquattresima edizione che s’inaugura questa sera.

Quale Festival dobbiamo aspettarci quest’anno?

«Facendo una battuta, da un festival ci si può aspettare di tutto. Rispetto a stagioni più convenzionali con programmi strutturati secondo logiche pluriennali, il Festival della Valle d’Itria ha oggi il dovere di sperimentare, cercare, scavare. Come avviene in tutte le ricerche e le sperimentazioni, le sorprese sono dietro l’angolo: quelle belle e le delusioni. Questa edizione ha puntato sul sentiero delle contaminazioni, delle ibridazioni, degli incontri tra civiltà, culture, pensieri, poetiche ed etiche dai caratteri diversi e spesso opposti per realizzare un prodotto di sintesi».

In quale maniera?

«Questo filo rosso del cartellone declina in diversi modi, secondo alcuni titoli e caratteri intrinsechi alle singole opere. Il più eclatante a livello di storia dell’opera è il Rinaldo del 1718. In tutti i libri di storia della musica è presente. È un’edizione che tutti conoscono perché rappresenta la sintesi tra il dramma per musica händeliano inglese in lingua italiana, che è il modello di riferimento della musica del Settecento europeo, con la poetica della scuola napoletana. S’incontrano quindi due colossi. E ne deriva un prodotto disomogeneo, ma anche un’opera che è testimone d’un momento storico particolarmente rivoluzionario. Possiamo sottolineare il fatto importantissimo: un fatto sostanziale di questa contaminazione è l’inserimento dell’elemento buffo nel corpo d’un dramma serio. Era inimmaginabile nel teatro di Georg Friedrich Händel e una moda nel teatro napoletano. Leonardo Leo, che diresse opera, scrisse praticamente un’opera nuova».

Approfondiamo questo discorso.

«Nell’autunno stava nascendo a Napoli il teatro musicale comico. Già da alcuni anni i napoletani frequentavano il teatro comico, le cui improvvisazioni prendevano di mira in particolare l’aristocrazia. Nel 1718 va in scena un’opera di Domenico Scarlatti, Il trionfo dell’onore, che sperimentava l’elemento comico evitando le trivialità e i lazzi dell’opera buffa. Metteva invece in scena personaggi tratti dal mondo reale che cantavano in italiano, abbandonando la lingua napoletana e assumendo così una caratterizzazione più universale. Invece che macchiette, proponeva personaggi con una varietà assolutamente nuova e rivoluzionaria per l’epoca. Il 1718 è quindi la data in cui il teatro dell’opera prende una strada nuova. Quella che porterà al teatro borghese abbandonando il dramma serio, il teatro coturnato degli eroi e dei personaggi inarrivabili. L’opera comincia finalmente a interessarsi delle persone reali. Nel Festival di quest’anno, quindi, analizziamo il momento fondante del teatro moderno».

C’è poi lo sguardo al Salento, di cui il territorio di Martina rappresentava, non tanto tempo fa, la propaggine settentrionale.

«L’esperimento dell’innesto della grande tradizione musicale popolare salentina, la pizzica, con il melodramma ottocentesco italiano, Il barbiere di Siviglia, ci è dato anche dal centocinquantesimo anniversario della morte di Gioacchino Rossini, un autore che non smette di essere moderno. La sua è una musica animata da una pulsazione ritmica a carattere dionisiaco che Stendhal chiamava follia organizzata. Rossini riesce nell’impresa impossibile di dare ordine e forma rigorosa a tutto quello che è inesprimibile, irrazionale. A dare consistenza formale a tutto quello che sfugge alla razionalità e al logos: pensiamo ai grandi finali delle opere comiche dove i personaggi diventano ingranaggi d’un meccanismo sonoro, musicale, in cui le parole smettono di avere un senso compiuto. E ci si limita alla pronuncia di fonemi, sillabe, suoni onomatopeici con un effetto modernissimo ancora oggi per la capacità di trasferire il senso della musica, del dramma, sul livello assolutamente astratto, svincolato da qualunque riferimento di dialogo o di senso. Per cui è studiato da chi si occupa del linguaggio e della psicologia comportamentale». 

Qual è la connessione con la tradizione musicale del Salento?

«Per quello che ho detto, Rossini è l’autore ideale questo tipo di sperimentazione. La pizzica da secoli esplora territori legati alla psiche, a comportamenti che la credenza popolare riteneva e ritiene curabili con la musica, a cui vengono attribuiti poteri taumaturgici legati al ritmo e ad alcuni elementi ritmici che si ripetono in maniera ossessiva fino impadronirsi del corpo della persona curata. Il Festival ha puntato una lente d’ingrandimento e questo esperimento, questa riflessione, prenderà forma di un convegno il 2 agosto. Si parlerà del rapporto tra la musica di Rossini e la tradizione popolare salentina dei barbieri guaritori. Si trattava spesso di musicisti dilettanti che guarivano le donne dal mal d’amore con la musica. Assistiamo quindi a un’affinità straordinaria, impressionante».

Questa sperimentazione ha suscitato anche delle critiche. Secondo alcuni questo incontro con la taranta potrebbe rischiare di snaturare il Festival.

«Se si legge il cartellone ci si accorge che il Festival della Valle d’Itria non rinuncia affatto alla sua missione di centro di ricerca di altissimo rigore che si avvale dei nomi più importanti del panorama internazionale del belcanto e del barocco musicale. In questi ultimi anni si è investito ulteriormente nel rigore dell’approccio perché abbiamo intrapreso la strada delle orchestre con strumenti antichi e della prassi esecutiva riformata. Lo abbiamo fatto senza che nessuno si scandalizzasse. Mi sembra infatti più grave proporre il barocco con orchestre moderne e cantanti non specialisti. Rispetto a questo rigore, questa ricerca, c’è un investimento continuo a migliorarsi perché siamo tra i pochi a dare spazio a questo repertorio. Se poi in un cartellone così rispettoso trova spazio la contaminazione con la musica popolare per raggiungere un pubblico ben più vasto, la ritengo una doverosa attenzione alla collettività nel senso più ampio del termine. Tutto vogliamo tranne un Festival snob che utilizzi risorse pubbliche per un gruppo ristretto di persone. Questo Festival mantiene ancora nel suo codice genetico la testimonianza e ilo messaggio di Paolo Grassi, di cui ricorre l’anno prossimo il centenario della nascita. Lui non voleva un Festival chiuso, ma ha dedicato tutta la vita all’etica d’un teatro dedicato a tutti».

 

 

 

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