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Paolo Wulzer: «Saper trasmettere il sapere. Questo era Matteo Pizzigallo»

di Redazione

17/07/2020 Oltre città

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Paolo Wulzer: «Saper trasmettere il sapere. Questo era Matteo Pizzigallo»

 

«Ho conosciuto Matteo in tempi relativamente recenti. Nell'anno accademico 2008-2009 mi coinvolse in un progetto di ricerca sull'Unione Europea e il Mediterraneo della Fondazione Mezzogiorno-Europa. Ero ai primissimi passi della mia carriera di docente e lui, già ordinario riconosciuto a livello nazionale e internazionale, fin dall’inizio volle abbattere la barriera gerarchica e impostare il nostro rapporto in termini paritari non solo sul piano professionale ma, soprattutto, su quello umano». Paolo Wulzer, professore associato di Storia delle Relazioni internazionali all’Orientale di Napoli, ricorda il suo legame con Teo Pizzigallo, come lo conoscevano tutti a Martina Franca, prematuramente scomparso due anni fa e di cui oggi sarebbe ricorso il settantesimo compleanno.

Com’è avvenuta la vostra amicizia e la vostra collaborazione?

«Eravamo molto diversi. Lui istrionico, espansivo, coinvolgente. Io mi apro più con difficoltà. Ma questa diversità era stata probabilmente una ragione per cui i nostri caratteri si erano in qualche maniera contemperati e resi complementari. È nata una collaborazione professionale a vari livelli e un’amicizia molto forte e profonda: un sodalizio sia umano che professionale. Lui è stato sempre presente nei vari passaggi della mia carriera, spesso anche casualmente nelle commissioni che mi hanno valutato. Gli piaceva dire che eravamo un po’ concorrenti perché le nostre università erano quasi dirimpettaie in via Mezzo Cannone e c’è sempre stata una rivalità storica. La Federico II è il gigante di Napoli: l’Orientale è molto più piccola e specializzata. Amava scherzare sulla loro rivalità». 

Che genere di storico è stato Matteo?

«Nella sua professione è stato un innovatore perché ha esplorato un modo nuovo d’intendere la Storia delle Relazioni internazionali. Essa nasce come disciplina del rapporto tra stati, diplomazie, governi. Lui aveva recepito questa ottica tradizionale, ma la completava una visione innovativa che guardava ai popoli, alle persone. Diceva sempre che in diplomazia conta molto la persona, l’individuo, il carattere, il temperamento: penso a certi suoi studi su figure della diplomazia italiana degli anni Cinquanta, su come riallacciarono il dialogo tra l’Italia e i Paesi del Mediterraneo. Un altro aspetto del suo essere innovativo era questo sguardo rivolto verso il basso che rispecchiava il suo carattere. Diceva che vedeva prima gli ultimi, le figure meno conosciute. E questo si rifletteva sul suo lavoro di storico». 

Quali caratteristiche presentava il suo approccio di studio? 

«Matteo nasce come storico delle Relazioni internazionali con un occhio all’economia. Anche questo fu innovativo. Oggi è scontato, ma trent’anni fa lo era molto meno. Il suo sguardo era sempre rivolto alla politica, soprattutto agli studi storici che guardavano al mondo e agli studi internazionali. Le sue prime opere sull’Agip, sull’Eni, sulla diplomazia italiana, lo posero tra i primi nel contesto storiografico italiano ad affermare che occorreva guardare all’economia per capire il mondo. Matteo diceva: poi ci mettiamo dentro la politica, la società, ma prima occorre verificare i flussi economici e finanziari. Il presidente della Società italiana di Storia internazionale, Antonio Varsori, in un convegno ha evidenziato proprio questo aspetto innovativo della produzione storiografica di Matteo».

Quali sono stati i suoi studi recenti?

«Recentemente lui si era dedicato con passione a studiare l’attualità internazionale. In teoria lo storico deve lavorare dove le fonti sono disponibili, e parlando del presente le fonti sono molto meno affidabili. Ma lui diceva che dall’esame delle fonti giornalistiche era possibile ricavare analisi ben fatte, approfondite. Le ultime sue opere riguardavano il Mediterraneo, l’Italia dei duemila, le primavere arabe, i rapporti tra l’Italia e le repubbliche dell’Asia centrale. Matteo ha avuto il merito di sdoganare gli studi storici su tematiche molto attuali, e questo era confermato dal fatto che lo chiamavano in televisione. Di solito, per commentare le questioni internazionali, chiamano il politologo, non lo storico. Invece chiamavano lui perché aveva la capacità di collegare la storia all’attualità. Usava la storia per leggere il presente».

 

  

Che genere di docente era?

«Come professore lui aveva la missione di seguire lo studente considerandolo come persona umana. La prima volta che lo aiutai a fare degli esami, venivo da un’altra scuola. Il docente con cui avevo lavorato era più rigido e valutava lo studente esclusivamente come tale. Matteo era molto attento a premiare chi meritava, però, con chi restava indietro, con chi era in difficoltà, si premurava di valutare lo studente come persona: capire se non aveva studiato e perciò era stato respinto oppure se aveva una personalità un po’ più complicata in cui le cose dovevano maturare dentro e andavano stimolate, in termini di capacità espositiva, con domande particolari. Mi invitava a premiare i migliori, a incoraggiare quelli che studiavano, ma anche a valutare come sbloccare il meccanismo di conoscenza bloccato in studenti particolari. Lui diceva sempre che il nostro lavoro era formare delle persone attraverso la nostra disciplina trasmettendone le specificità. Questa sua missione verso gli studenti si è rivelata clamorosamente dopo la sua scomparsa. Sono nell’università da quasi vent’anni, ma una manifestazione di affetto così continua, non solo al funerale ma ancora oggi, con studenti che mi riconoscono come suo collaboratore, mi dicono che l’affetto e il bene che lui ha seminato è stato immenso. Diceva sempre che nel nostro lavoro di professori dobbiamo contribuire all’avanzamento delle conoscenze nel piccolissimo orticello della nostra piccola comunità scientifica, ma la nostra vera missione è trasmettere le conoscenze agli studenti aiutandoli a formarsi come persone in grado di farsi strada nella vita».

Qual era il suo segreto?

«In rete girano dei video di alcune sue lezioni. Il coinvolgimento che lui riusciva a trasmettere era unico. E quei video andrebbero mostrati per insegnare ai docenti a insegnare: l’insegnamento non è innato, non è acquisito. A livello ministeriale si parla di corsi per formare i docenti a fare didattica: se si trasmettessero i video di Matteo si capirebbe come unire la profondità del pensiero con la capacità di coinvolgere gli studenti che è poi il segreto di una didattica che funzioni. Ho assistito a lezioni profondissime dove venivano trasmesse nozioni fondamentali, ma toccava agli studenti prendersi ciò che il docente voleva trasmettere perché lui non era in grado di farlo. Matteo univa le due cose. Qualche studente mi ha fatto leggere i quaderni degli appunti presi durante le lezioni di Matteo. Se fossero sistemati, ne uscirebbero almeno due, tre libri di concetti approfonditi, articolati. Questo era Matteo».

 

 

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