Addio alla Martina carolingia
di Pietro Andrea Annicelli
18/12/2020 Società
Ci sono accadimenti che fissano la fine di un’epoca. La morte di Antonio Caroli all’età di ottantasei anni icasticamente l’11 novembre scorso, giorno in cui si ricorda il santo patrono Martino di Tours, può essere simbolicamente considerata la conclusione della lunga stagione della Martina carolingia. Qualsiasi situazione riguardasse in futuro gli epigoni e gli eredi, dall’improbabile ritorno in politica di Franco Palazzo a quello, difficile ma non impossibile, di Leonardo Conserva, alla continuazione del percorso di Mario Caroli, nipote di Antonio e figlio del fratello maggiore Giuseppe o, meglio, Pinuccio, già deputato e sottosegretario (la precisazione è per i giovani: chi ha più di quarant’anni sa benissimo chi è), sarà definitivamente svincolata da un tempo per certi versi propizio, per altri problematico, di certo rilevante negli oltre settecento anni della vicenda storica di Martina.
MARTINA CITTÀ PROTETTA. Era un’Italia giovane. Le prime azioni terroristiche rosse e nere dopo la strage di piazza Fontana a Milano non avevano frenato la richiesta d’un benessere diffuso e la legittima spinta a procurarselo. L’Italsider a Taranto era un’avanguardia di modernità secondo un’idea d’industrializzazione del Mezzogiorno non ancora resa impraticabile dagli shock petroliferi. Un ambiente relativamente chiuso come la Martina di allora divenne nuova dimora di famiglie che le possibilità di lavoro nel siderurgico di Taranto avevano fatto trasferire fiduciose da Napoli, Genova e altre realtà italiane.
I nuovi arrivati popolarono i quartieri periferici costruiti tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta. Proprio l’alleanza tra le cooperative per l’edilizia popolare rappresentate dal sindaco Franco Punzi e gli imprenditori edili che avevano in Antonio Caroli il referente dei loro interessi fu per anni una chiave del successo della Martina cosiddetta carolingia.
Il sistema della Prima Repubblica, fondato sulla Democrazia Cristiana partito stato, per circa un quarto di secolo, dall’elezione di Pinuccio Caroli alla Camera nel 1968 ai primi anni Novanta, rese la nostra una città protetta. In quegli anni i politici democristiani martinesi, di casa nel capoluogo ionico grazie anche a don Guglielmo Motolese arcivescovo negli anni ruggenti dell’Italsider, ebbero nei processi decisionali un peso specifico talvolta superiore a quello dei tarantini. E Giuseppe Caroli, in diverse fasi sottosegretario alla Difesa, alle Finanze e alla Marina Mercantile, nonché referente in Puglia della potente corrente di Giulio Andreotti, fu a lungo il perno di mediazioni politiche inerenti le commesse pubbliche, la domanda e l’offerta di posti di lavoro, le aspirazioni dei nuovi ceti emergenti, gli interessi dell’imprenditoria privata e del sistema creditizio.
La Dc detenne la maggioranza assoluta del Consiglio comunale dal dopoguerra al 1987. Già nella seconda metà degli anni Sessanta la generazione dei Caroli, di Punzi, del senatore Giulio Orlando, avvertì l’esigenza di far diventare la città qualcosa di più grande e moderno del lindo paese agricolo consolidato al centro della Puglia nei quasi trent’anni in cui si avvicendarono, dall'inizio della Repubblicaa<, le sindacature dei fratelli Alfonso e, soprattutto, Alberico Motolese (il terzo era don Guglielmo). I giovani fratelli Caroli, con la sfiducia nel 1974 al vecchio sindaco, non solo si sostituirono ai Motolese come leadership familiare nell’immaginario collettivo, ma inaugurarono una nuova stagione in cui i ceti proprietari da cui provenivano, o padronali secondo il vecchio sistema di relazioni, stringevano una solida e duratura alleanza d’intenti e d’interessi con quelli professionali, con la piccola borghesia, con i lavoratori cattolici. Lorenzo Castellana, direttore del periodico Giorno per giorno vicino a loro e alla Dc, parlò di rivoluzione borghese nel titolo d’un suo libro. In realtà fu la trasformazione in ceto medio, attraverso la società dei consumi e in maniera non sempre indolore, d’una diffusa mentalità popolare conservatrice e anche arcaica.
Fu l’epoca delle aperture a realtà impensabili nell’era motolesiana: prima fra tutte il Festival della Valle d’Itria, ideato dalla passione per la lirica di Alessandro Caroli, uno dei fratelli maggiori di Pinuccio e Antonio che erano tra i più giovani d’una famiglia di nove figli. L’atto fondativo del Festival riunì, insieme al sindaco di allora e suo attuale presidente, Punzi, personalità che solo l’influenza dei Caroli era stata in grado di mobilitare. Insieme all’edilizia che diveniva anche speculazione (i quartieri dormitorio senza servizi, le opere incompiute) e al terziario che aveva nelle confezioni, cioè l’imprenditoria dei capispalla, il suo più importante segmento, fu intorno al Festival che lentamente cominciò a farsi strada la concezione del turismo culturale come risorsa che solo negli ultimi vent’anni si è definitivamente affermata.
Giuseppe e Antonio Caroli ai tempi della Martina "carolingia". In alto, nella foto in primo piano, democristiani a raccolta intorno a Giuseppe Caroli in una manifestazione pubblica. Sono evidenziati due giovani Donato Pentassuglia (in alto, dietro ad Antonio Caroli) e Leonardo Conserva (a destra).
L’ETÀ “CAROLINGIA”. I Caroli, grazie a un loro sistema di relazioni che cristallizzava e rendeva durevoli gli effetti del potere politico, seppero ricevere il consenso della gente dandogli, finché fu possibile, quello che chiedeva. C’erano del paternalismo e del clientelismo che l’elettorato sollecitava, soprattutto quello più umile per cui Pinuccio assumeva le sembianze d’un principe confessore. Ma non secondo automatismi. Si trattava, piuttosto, di adeguare pragmaticamente l’offerta alla domanda attuando il possibile. Lucio Montanaro, nella sua semplicità ottimistica di caratterista capace, a suo modo, d’essere bocca della verità, me lo spiegò così: «Pinuccio ha sistemato i figli di tutta Martina: sistemerà anche i nipoti e i nipoti dei nipoti». Un esempio tra tanti oggi impensabile: uno fu rintracciato in un campeggio estivo all’estero, rimpatriato di corsa e mandato a fare un concorso in un ente pubblico per un singolo posto di lavoro: il suo.
Abile mediatore, Pinuccio Caroli sapeva all’occorrenza essere un politico audace. Agostino Quero una volta lo disse in maniera illuminante: «Sembra il cavallo degli scacchi». Solo il cavallo, muovendosi secondo percorsi che hanno originato un dilemma matematico ancora insoluto, può saltare per i suoi fini, nel gioco degli scacchi, pezzi amici e avversari. La figura del politico alla Caroli, però, va spiegata.
Per molti, soprattutto i più giovani, dopo quasi trent’anni di berlusconismo degenerato, attraverso Matteo Renzi, fino al populismo di Matteo Salvini e Luigi Di Maio, il politico è un insieme tra l’avventuriero, il mercenario, l’affabulatore e il giocatore d’azzardo. La fine del sistema dei partiti ha causato un modello volatile di forze politiche che rappresentano la proiezione prioritaria d’interessi personali e particolari nello Stato. I politici ricevono i voti dai cittadini, di cui si avvalgono per interessi spesso diversi da quelli pubblici, attraverso artifizi elettorali (sistemi non rappresentativi, pseudo voto elettronico) che non li fanno rispondere del loro operato.
Il sistema della Prima Repubblica, con i suoi rigidi partiti ideologici garanti del patto costituzionale che doveva ricostruire l’Italia dopo la guerra, per prima la Dc che aveva ereditato dal Fascismo il ruolo di partito stato a causa della democrazia bloccata dalla guerra fredda, produsse una classe politica che era e si sentiva espressione d’un consenso vero e d’una visione del sistema Paese. Sia nelle alleanze con le altre forze politiche, sia ricercando una sintesi tra le sue correnti, lo scudocrociato perseguiva necessariamente mediazioni e compromessi. E Pinuccio Caroli, nella sua area di competenza, aveva capacità, risorse e consenso per esercitare la sua influenza in questa attività incessante e pragmatica: questo era fare politica.
Antonio Caroli risultava invece l’uomo forte della Dc martinese, quel grande contenitore inquieto che, nel 1980, arrivò a trentuno consiglieri comunali su quaranta raggiungendo il suo apogeo, ma disseminando anche i prodromi del suo futuro declino. Sapeva convincere, Antonio, alle ragioni dello stare insieme con la concretezza volitiva del suo carattere vulcanico e generoso. Nacque la leggenda del vicesindaco che non firmava mai alcun atto amministrativo per spiegare la sua assenza dai feroci contenziosi attraverso i quali, anche, si faceva politica. La garanzia dalle insidie era il suo sguardo lungo di avvocato e, all’occorrenza, la competenza di Luciano Semeraro, un eccellente giurista suo collaboratore.
Giuseppe Caroli, rieletto ininterrottamente alla Camera nel 1972, ’76, ’79, 1983, ’87, 1992 nella circoscrizione tra Lecce, Brindisi e Taranto, alla fine degli anni Settanta era da tre sottosegretario alla Difesa e tra i deputati più suffragati d’Italia. Riceveva importanti incarichi all’estero, in particolare per il fecondo rapporto dell’Italia con la Libia. Prima Linea, organizzazione terroristica di estrema sinistra seconda solo alle Brigate Rosse per aderenti e azioni armate, lo aveva tra gli obiettivi. Due eventi concorsero, a metà degli anni Ottanta, a ridimensionarne il potere politico. Il primo passò alla cronaca come il caso Taranto. Il secondo, anche come conseguenza d’una complessa indagine del Fbi statunitense, fu denominato Sirian connection.
Il caso Taranto portò il Consiglio superiore della magistratura a trasferire, nel dicembre 1985, l’allora procuratore capo e due giudici per rapporti con ambienti imprenditoriali e politici. A Martina la vicenda, dopo un esposto dell’associazione forense Mario Greco e un’ispezione dello stesso Csm, mise in discussione l’attività dei pretori, accusati dalle forze politiche d’opposizione d’essere legati alla Dc e in particolare alla corrente carolingia. La Procura della Repubblica di Taranto, inoltre, venne criticata per la mancata attenzione che si riteneva avesse verso denunce presentate su questioni urbanistiche.
L’aspetto della Sirian connection che danneggiò Caroli fu invece una lettera di presentazione all’ambasciata siriana in Italia d’un imprenditore di Fasano. L’uomo fu poi arrestato per traffico internazionale di droga e condannato insieme ad altri. La magistratura appurò che la lettera si limitava a trasmettere l’intenzione, espressa dall’uomo, di realizzare un pastificio in Siria e rendere operante un’associazione d’amicizia tra l’Italia e il Paese arabo sul modello di quella con la Libia, attiva da anni, di cui lo stesso deputato era presidente. La polemica, però, fu al calor bianco. Caroli ottenne che la sua estraneità a ogni accusa fosse verificata rapidamente per potersi candidare alle politiche dell’87. Enzo Tortora, eurodeputato del Partito Radicale dopo l’infondatezza delle accuse che lo avevano portato in carcere a Napoli, venne a lamentare in campagna elettorale: «Giustizia a misura di onorevole».
Dall'alto e da sinistra: Giulio Orlando (1926-2017), Vito Consoli (1941-1989), Martino Sante Liuzzi, Franco Punzi.
IL DECLINO. A loro modo caratteristici, anche sensibili, e moderni conservando i tratti del conservatorismo agrario di un’epoca ancora pre mediatica, i Caroli ebbero il destino dei Motolese: essere considerati, nella stessa Dc, degli avversari da spodestare. Gli anni Ottanta a Martina furono complicati. L’intera provincia subì le conseguenze della crisi mondiale dell’acciaio che progressivamente mise in ginocchio la siderurgia italiana e quindi l’Italsider. Gli interessi contrapposti sul controverso piano regolatore causarono il blocco dell’edilizia. Il fallimento d’una finanziaria, l’Ifin, ebbe effetti devastanti sull’economia cittadina.
Il biennio tra il 1985 e le comunali anticipate dell’87 fu il Vietnam di Franco Punzi. E il 1987 è l’anno che segna a Martina un cambio di paradigma. In precedenza l’elezione, con un ampio e decisivo apporto democristiano neanche nascosto, del senatore comunista Vito Consoli, aveva portato in Parlamento, oltre che in Consiglio comunale, il tribuno che mancava al Partito Comunista Italiano per assediare la corrente carolingia. Fece da sponda la parte della Dc che aveva come referenti un ex collaboratore di Pinuccio Caroli abile e spregiudicato, Michele Ruggieri, nonché i fratelli Pietro e Martino Sante Liuzzi. Fu grazie a loro se il Pci di Consoli andò al governo dell’Amministrazione provinciale.
Caduta l’ultima Amministrazione comunale a guida monocolore democristiana, la lista dello scudocrociato alle comunali fu stilata dal senatore Orlando e dal deputato tarantino Domenico Maria Amalfitano escludendo i carolingi. La Dc perse la maggioranza assoluta in Consiglio comunale. Fino al 1993, quando fu eletto per la prima volta il sindaco da parte dei cittadini con una legge voluta alla Camera anche da Pinuccio Caroli, si avvicendarono delle Amministrazioni di coalizione con primi cittadini Michele Conserva (la giunta eretica tra democristiani e comunisti), ancora Franco Punzi, poi Martino Sante Liuzzi, di nuovo Conserva, infine Peppino Martucci.
Inizialmente, in quell’87 turbolento, sembrò che Pinuccio Caroli non fosse stato rieletto deputato. Poi, riconteggiando i voti, ci si accorse del contrario. Ma per farlo rientrare senza scompensare l’equilibrio correntizio della Dc ci volle del tempo. Caroli fu ancora rieletto nel 1992, ma la Dc era al crepuscolo. Due anni dopo, Forza Italia gli preferì come candidato al Senato il più giovane cugino Pasquale Caroli, noto penalista.
Pinuccio non si diede per vinto e si candidò lo stesso con una lista di centrodestra collaterale al Polo delle Libertà sottraendo a Pasquale i voti per essere eletto. Pasquale si rifece alle comunali del ’98. Pinuccio, a sessantasette anni da compiere di lì a poco, fu candidato sindaco dal Centrodestra per concludere in bellezza la sua carriera politica. Ma un accordo di programma tra l’allora presidente della Provincia Marcello Cantore, ex fiduciario di Michele Ruggieri a sua volta morto prematuramente in un incidente d’auto alcuni anni prima, nonché lo stesso Pasquale Caroli, referente locale dell’Unione Democratica per la Repubblica (Udr), fece eleggere sindaco al ballottaggio Bruno Semeraro per il Centrosinistra.
Da sinistra: un giovane Giuseppe Caroli insieme a un giovanissimo Marcello Cantore, Giuseppe Caroli in una foto recente insieme alla nipote Elisabetta e al fratello Alessandro.
EPILOGO. Franco Punzi lasciò la politica per dedicarsi con successo al consolidamento del Festival della Valle d’Itria. Antonio Caroli non si ricandidò più dopo l’87, ma mantenne un’influenza da eminenza grigia per il resto della sua vita nella politica e nella vita pubblica di Martina. Leonardo Conserva, consigliere provinciale e sindaco dal 2002 al ‘07, nella Democrazia Cristiana carolingia iniziò il suo apprendistato politico alla fine degli anni Ottanta come il quasi coetaneo Donato Pentassuglia che ha poi costruito la sua carriera politica nel Centrosinistra. Conserva ebbe in Antonio Caroli, amico del padre Martino, a sua volta compartecipe delle campagne elettorali di Pinuccio, un riferimento discreto e presente. Franco Palazzo, sindaco con il Centrodestra dal 2007 al ‘11, fu invece referente della Dc carolingia come consigliere comunale e assessore nelle Amministrazioni Punzi. Antonio Caroli era il suo leader nel partito.
Pinuccio Caroli («Continuerò a fare politica finché vivrò» ebbe a dire dopo la sconfitta del 1998) nella diaspora democristiana scelse il Centro Cristiano Democratico di Pierferdinando Casini, di cui divenne componente della giunta nazionale, segretario regionale e presidente provinciale. Il suo ultimo incarico fu nel 2003, a settantadue anni: coordinatore regionale degli enti locali per Forza Italia. Solo il logorio dell’età lo ha indotto a ritirarsi a vita privata. Il 6 dicembre ha compiuto ottantanove anni.
Dei suoi tre figli è stato il terzogenito Mario che ha proseguito l’attività politica in Forza Italia. Proprio lui, qualche tempo fa, ha potuto constatare quanto grande ancora sia la popolarità del padre. L’errata notizia della morte di Pinuccio Caroli diffusa improvvidamente da un giornale locale ha provocato migliaia di testimonianze di affetto sotto forma di telegrammi, bigliettini, telefonate, messaggi, a dimostrazione che solo l’inevitabile incidenza del tempo sull’essere umano gli ha impedito di perpetuare quella mission di santo protettore, dei martinesi e non, che le caratteristiche del potere della sua epoca gli avevano assegnato.
La scomparsa di Antonio, un mese e mezzo fa, ha rappresentato l’ultimo saluto, per quelli della sua generazione e di quella successiva, a una storia politica che li ha resi quelli che sono stati e sono. E se l’epoca attuale, nel bene e nel male, è anche un effetto di quella storia, la distanza dal passato è tale, non solo in termini temporali, che non ci sono possibilità d’imitazione o di apprendimento d’un eventuale canone caroligio. Se non per un aspetto che però riguarda in generale la politica italiana: il senso della mediazione. Valore alto, e distinto dal compromesso, di cui i Caroli hanno saputo essere, nei loro momenti migliori, interpreti su scala cittadina, territoriale e nazionale.
Rita Motolese Frascolla.
POST SCRIPTUM. A qualche giorno di distanza da Antonio Caroli è venuta a mancare improvvisamente Rita Motolese Frascolla, imprenditrice agrituristica. Era figlia di Alfonso Motolese, oftalmologo benefattore, fratello di Guglielmo e di Alberico, primo sindaco della Martina repubblicana e deputato alla Costituente, e di Chiara Frascolla, nobildonna tarantina di grande carattere e personalità. La sua storia personale l’ha vista esprimere sia nel lavoro che nella vita pubblica le qualità derivate da due genitori non comuni. Sorella di Pasquale Caroli per parte di madre, sposata con l’ingegner Giovanni Nasti che è stato uno dei redattori dei piani particolareggiati del piano regolatore cittadino, è stata determinante per la costituzione del locale Soroptimist International. Prossimamente la neo presidente del club Soroptimist di Martina Franca la ricorderà in un’intervista.
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Pietro Andrea Annicelli